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L’etica conviene all’impresa

Rivista della Lega Coop – 18 Febbraio 2004

Giovanni Floris, giornalista, ha partecipato al Forum di Legacoop dove ha svolto un intervento sull’etica di impresa, un tema cui ha dedicato un ampio spazio nel suo libro dal titolo “Una cosa di sinistra” che uscirà a breve per Mondadori.

In questa intervista Floris, conduttore della trasmissione televisiva di Rai Tre “Ballarò”, per la quale ha ricevuto il premio “Telegatto” e il premio “Flaiano”, riprende alcune delle questioni affrontate nell’ intervento e nel suo saggio.

Innanzitutto una domanda al giornalista che lo stesso presidente di Legacoop, Giuliano Poletti le ha rivolto: come mai le cooperative, tanto diffuse e legate alla cultura ed alla storia economica italiane, sembrano non avere una sufficiente attenzione da parte dei media e del grande pubblico?

La cooperazione è una realtà imprenditoriale presente e diffusa in tutti i continenti capace, in alcuni casi, di competere con successo anche con le multinazionali e, in Italia, ha avuto un ruolo da protagonista nella crescita del mercato; eppure nella opinione corrente il concetto di cooperativa è parecchio vago.

Se, alla gente che incontriamo per strada, rivolgessimo la domanda “cos’è una cooperativa?”, è probabile che non saprebbe dare una risposta positiva.

Come dovrebbe presentarsi allora il mondo cooperativo per farsi percepire dalla gente per quello che realmente rappresenta?

Partiamo proprio da qui, da quello che la cooperativa è e da quello su cui le cooperative devono puntare per apparire per quello che sono. Ma per chiarire questo punto bisogna partire da una riflessione sulla responsabilità etica dell’impresa, sul suo rapporto con la società.

Cosa intende per etica dell’agire imprenditoriale?

L’azione del soggetto economico è un’azione come tutte le altre e l’imprenditore sa, come sappiamo tutti noi e come ci suggerisce lo stesso senso comune, che la furbizia alla lunga non paga, che se non si cammina in linea retta, alla fine ci si rimette sempre.

L’etica è quindi una categoria che fa parte a pieno diritto del pensare economico e del fare impresa.

In una società, qualsiasi tipo di società, rispettare i principi di integrità nei rapporti di lavoro, in quelli economici in senso più ampio, negli stessi rapporti politici, significa premiare il merito, premiare lo sforzo, le virtù migliori dell’individuo.

Comportarsi in maniera eticamente corretta vuol dire far crescere la comunità, sia un’impresa o anche un partito politico, far sviluppare le energie migliori, valorizzare i migliori, incoraggiarli a dare il meglio di sé. Nello stesso tempo, orientando a un paradigma etico il proprio agire, si scoraggiano i peggiori a prendere posizioni di primo piano.

Insomma, l’integrità nell’agire economico e quindi il rispetto del merito, conviene agli imprenditori e all’ economia oltre che alla intera comunità dei cittadini.

Per dirlo in modo semplice, questo è quello che risulta: l’etica, l’integrità, il rispetto del merito, il rispetto dei principi è conveniente perché permette la crescita, la formazione della ricchezza; permette di realizzare nella società condizioni di vita decorosa per tutti.

Il suo opposto, d’altronde, è premiare la corruzione, lodare i disonesti, elogiare i corrotti: così si uccide qualsiasi comunità politica o qualsiasi impresa. Il comportamento etico, ma ancora di più la dimensione dell’etica, vanno quindi proposti, non solo come scelta morale giusta in sé, ma anche perché meramente utili al buon vivere della società del nostro tempo.

Fare la cosa giusta, insomma, conviene. Mentre non sempre e’ giusto quello che conviene.

Questo significa rimarcare che fra l’impresa e l’ambiente sociale in cui essa agisce c’è un inscindibile rapporto di interdipendenza.

Se ci spostiamo sul terreno prettamente economico c’è dell’altro. Come si possono definire i limiti di un’impresa? Dove finisce un’impresa?

Definire i confini, anche solo geografici, del fare impresa non è facile: come si fa a dire che un’impresa finisce ai cancelli della fabbrica? Come si fa a segnare un confine tra impresa e società circostante quando abbiamo esempi, nella storia, di città scomparse con lo scomparire di un’azienda? Penso all’esperienza americana, penso a Detroit.

O quando abbiamo sotto gli occhi, nei giornali di questi giorni, la cronaca della scossa che fa tremare sin dalle fondamenta intere regioni, come sta succedendo intorno al caso Parmalat: si scopre una truffa, basata sui bond, e vanno in carcere uomini di impresa, di finanza, di banca, vengono coinvolti i politici, si interessano della questione uomini di Chiesa.

La vita, le sorti di un’impresa coinvolgono un intero vivere sociale, un’intera organizzazione civile.

Questa sottolineatura chiama in causa i principi e le regole legate alla responsabilità sociale della impresa, del suo management (che non può, come si ripete spesso, esternalizzare i costi ed internalizzare i benefici), la valutazione in termini di ricadute sociali dell’efficacia dell’impresa, ma anche, dall’altra parte l’importanza del contesto sociopolitico per la crescita dell’imprenditorialità.

E’ difficile individuare con nettezza il confine tra il diritto soggettivo dell’operatore economico e il diritto della comunità, perché un’impresa non ha confini, cresce se cresce la società circostante, e viceversa.

Lo sviluppo di un’impresa, quindi, non si può misurare solo con la crescita del profitto, la diffusione dello sviluppo diventa un metro di misurazione anche della validità e del successo di un’impresa.

Di conseguenza, occorre confrontarsi con categorie che non sono meramente o prettamente economiche, ma sono qualitative, morali, politiche.

Allora ci si deve domandare se sia possibile governare un’azienda senza il riconoscimento collettivo di quelle virtù, pubbliche e private, che fanno di un capo un’autorità. Perché esiste un aspetto morale dell’opera dell’imprenditore, soggetto che opera in un mondo più ampio in cui nessuno può disinteressarsi del destino degli altri.

Ma a questo punto viene inevitabile la domanda: una azienda può consolidarsi e crescere, oggi più che mai, solo a condizione di sostenere una agguerrita concorrenza di mercato e questo è evidentemente possibile solo se rispetta le regole della competitività basate su un circolo virtuoso di contenimento dei costi, livelli soddisfacenti di profitto ed investimenti.

Ferma restando la necessità di rispettare le regole formali, non pensa che tra gli obiettivi di bilancio aziendale e le scelte dettate dalla responsabilità sociale si crei una frattura, specie nei momenti di crisi come quello che stiamo vivendo?

E’ evidente che per fare un’impresa non basta il rigore morale. Occorre anche il sapere tecnico, la capacità di competere, la concorrenzialità dell’operare.

Le imprese, anche quelle cooperative, proprio perché agiscono sul mercato debbono saperne rispettare le regole; debbono avere le carte in regola per reggere una competizione in cui il fatturato è diventato un importante elemento di selezione.

Ma non c’è più spazio per il mito delle scelte che sul mercato si fanno da sole: anche le scelte che si fanno in ambito economico sono soggette alla responsabilità.

L’idea che il mercato, liberato dai vari lacci e laccioli, impedimenti non solo di natura formale, ma anche morale, sia di per sé sufficiente a garantire la crescita e il benessere, si è dimostrata destituita di fondamento, ma lo stesso si deve dire della negazione del mercato come luogo di creazione del benessere.

La nostra società, sempre più complessa e più raffinata, può essere governata solamente tenendo insieme più dimensioni: modernità, diritti, efficienza e principi.

Non si possono più accettare le spiegazioni semplici dell’esistente, le definizioni inutili e povere come quella, ad esempio, che un’impresa risponda solo alla logica del profitto. Tenere separate le diverse dimensioni, efficienza e principi, non può che produrre effetti negativi.

La responsabilità sociale nelle nostre società occidentali è quindi una necessità strategica nell’agire imprenditoriale?

Sì e questo perché il contesto si è trasformato, l’economia è cambiata, ed il capitale umano è diventato decisivo. Va garantita, certo, la concorrenza, ma il mercato non può essere lasciato a se stesso, ha continuamente bisogno di essere difeso da quelli che nel mondo dell’industria, della finanza, dei servizi, come in quelli del commercio e delle professioni, vogliono piegarlo ai propri interessi particolari.

Il dibattito fino a poco tempo fa si risolveva tra chi vedeva nel mercato un’inarrestabile forza innovatrice e chi nel mercato vedeva l’aberrazione dell’uomo.

Il dibattito si è de-ideologizzato e in genere questa è una buona premessa. Termini come mercato, liberalizzazione, privato, pubblico assumono adesso significati più ampi, problematici, non sono utilizzati come verità assolute che troncano ogni discorso.

L’essere umano in quanto tale riconquista il terreno lasciato sul campo del mercato, l’umanità diventa una risorsa. Conviene concentrare ogni sforzo sullo sviluppo delle risorse umane, l’unica sfida possibile diventa quella, da un lato, di innovare e, dall’altro, di riscoprire l’attenzione perduta nei confronti delle classi meno protette e meno privilegiate per far partecipare, perché – avevamo detto – cresce la società e cresce l’impresa.

In questa visione, in questo contesto che lei ha delineato, il ruolo della cooperativa assume allora una rilevanza ed una attualità nuove in quanto impresa capace di competere ma necessariamente caratterizzata da una specifica funzione mutualistica interna, verso i soci, ed esterna nei confronti della comunità dei cittadini, dello sviluppo di una imprenditorialità diffusa, della crescita del contesto economico.

La cooperazione si colloca a pieno titolo in una visione più ampia che si propone la realizzazione del principio della democrazia economica.

Democrazia economica significa diffusione dei benefici del mercato e della cultura dell’impresa alla platea più ampia possibile di soggetti, promuoverla richiede azioni di innovazione su più livelli: aumentare il benessere per aumentare il numero dei soggetti che del benessere beneficiano; allargare l’area dei diritti e della cittadinanza.

Un progetto nuovo che impone a tutti nuovi ruoli e nuove categorie mentali, linguistiche, politiche.

Non si tratta di accettare o rifiutare il mercato, ma di disegnarlo e utilizzarlo.

Il capitalismo si rivela per quello che è: un mezzo e non un fine, pronto a cambiare rotta a secondo delle necessità e delle culture. Se vogliamo una crescita giusta abbiamo bisogno di un capitalismo responsabile, che guardi anche al medio e lungo periodo, non solo all’immediato.

E siamo al punto da cui eravamo partiti, perché l’etica in questo quadro riconquista spazio sull’economia.

L’etica –ed anche la politica- riconquistano spazio sull’economia, lo spazio attraverso cui disegnare una missione, uno scopo comune. Si riparte da zero. E’ possibile intrecciare nuovi dialoghi e prefigurare nuovi progetti: l’imprenditore, il lavoratore, il mercato, il capitalismo sono categorie diverse dal passato e nel medio, lungo periodo, non vi è un conflitto di fondo tra gli obiettivi specifici di un’impresa e gli obiettivi qualitativi che si possono porre un gruppo di esseri umani, ad esempio una cooperativa.

Una collettività è interessata alla sopravvivenza di un’impresa e alla buona salute economica e finanziaria affinché siano garantite occupazione, possibilità di carriera, condizioni retributive non inferiori a quelle di mercato. La collettività è interessata e presta attenzione agli indici etici di un’attività economica perché sono garanzia di tenuta nel tempo di un’attività.

Esistono degli indici etici sperimentati negli Stati Uniti, che assicurano come la responsabilità sociale delle imprese sia garanzia di tenuta nel tempo delle stesse.

Se aumenta l’impegno etico diminuisce il rischio del lungo periodo. Questo è il terreno in cui il movimento cooperativo opera da sempre, ed è il terreno in cui può dimostrare di non essere una novità, ma una vera e proprio consolidata visione del mondo.

E, allora, torniamo alla domanda del presidente Poletti: come comunicare la specificità dell’essere cooperativa attraverso i media?

Per rapportarsi con la pubblica opinione attraverso i media bisogna non solo essere, ma anche apparire. L’immagine che si impone è senza dubbio quella forte, quella immediata, quella vincente, quella evidente. Ma, di nuovo, si può essere un’immagine forte di breve periodo e essere un’immagine forte di lungo periodo.

Si può comunicare novità, ci si può imporre attraverso il dato scioccante, immediato, fulminante o si può scioccare semplicemente apparendo sicuri di sé, del proprio essere, del proprio lavoro e delle proprie convinzioni.

Proprio come nell’economia, si può guadagnare tanto e in fretta, e, magari, invischiarsi in operazioni finanziarie ad alto rischio o poco lecite, e si può guadagnare tanto, nel tempo, immettendo nel mercato prodotti di qualità, competitivi che aprono una dopo l’altra nuove strade di intrapresa.

E’ sufficiente allora per le cooperative essere delle imprese efficienti ed efficaci, con una positiva ricaduta sociale per essere percepite come tali?

Le cooperative hanno uno svantaggio: sono molto legate alla cultura dell’essere e meno a quella dell’apparire, e un po’ della seconda, invece, serve sempre e comunque.

Le cooperative però hanno un vantaggio: sono quello che sono, non devono recitare per essere appetibili sul mercato della comunicazione, hanno dentro di loro le caratteristiche che il consumatore, il lavoratore, il cittadino domanda al mercato.

Ritorniamo, quindi, alla domanda del presidente Poletti: come “bucare” i media?

Semplicemente – rispondo – essendo cooperativa, raccontando quello che siete, perché la vostra sembra essere una risposta semplice, immediata alle domande del presente.