“Ballarò” con i lupi. Fino alla fine
L’Unità – 5 Gennaio 2003
Giovanni Floris, sfida vinta su Rai: “Facciamo controinformazione. Cioè giornalismo”
Un giornalista “nuovo”, un mucchio di cartone squadrato, un titolo incomprensibile: gli spot di presentazione del nuovo programma di Raitre lasciavano piuttosto perplessi. Era stata la rete di Alessandro Curzi, di Giuliano Ferrara. Di Lucia Annunziata, del giornalismo d’assalto: e adesso, questo “Ballarò”? Alla prima puntata – lo scorso 5 novembre – si parlava di politica e un milione e mezzo di persone si era fermata a guardare il programma.
La media di ascolto sfiorava il 6 per cento. A Raitre facevano i conti: si poteva puntare sul 6 e mezzo per cento, forse, il 7, per Natale: la prima serata del martedì è sempre difficile, sarebbe stato un buon successo. Puntare sull’informazione nell’ora dei film si sa, è sempre un rischio. Una settimana dopo, quei conti erano da buttare, l’Auditel era arrivata a 7,4%, davanti alla tv c’erano due milioni di telespettatori. Un caso? Le puntate successive rispettavano le previsioni tra un milione e 700 mila e due milioni di pubblico.
Il 17 dicembre alla chiusura per le feste, il balzo: l’Auditel arriva a 11,15, il pubblico sfiora i tre milioni. Per Raitre, praticamente un trionfo. Bravi, ragazzi.
Da martedì su Raitre è di nuovo Ballarò. Si palerà di guerra e di globalizzazione in studio Walter Veltroni, Giulietto Chiesa, Ferdinando Adornato e Edward Luttwack. Gli ospiti sono avvertiti: Giovanni Floris toglie la parola se la tirano per le lunghe, se superano il pugno di secondi concessi, se cambiano argomento.
E’ così che al suo debutto Floris si è fatto la fama di antipatico, vestito come un ragioniere, entrato alla Rai per concorso invece che per regolare lottizzazione: è anche per questo che due mesi fa Ballarò era stato accolto, nel primo minuto della prima trasmissione, dal 4 per cento del pubblico tv ed è stato lasciato, prima di Natale, nell’ultimo minuto dell’ultima puntata, dal 18 per cento della platea televisiva. Un successo, molto al dì là delle previsioni più ottimiste.
I critici dicono che lei sta seguendo le orme di Michele Santoro. Avete cercato di raccogliere quella eredità e quel pubblico?
No, per niente. A parte il fatto che non ci sono eredità da raccogliere perché Santoro e Sciuscià non sono morti, non vedo neppure paragoni possibili tra Santoro, che da 15 anni fa televisione, e noi, che siamo qui da 2 mesi… Una trasmissione di informazione non ne sostituisce un’altra, arricchisce il panorama: Sciuscià, Excalibur, il fatto, Ballarò, Porta a Porta…. C’è posti per tutti: non è uno spazio da dividere, è uno spazio infinito. Santoro vuole tornare su Raidue, anche se Paolo Ruffini – il direttore di Raitre – gli ha offerto spazi sulla rete: io spero che torni presto in tv, e mi auguro che scelga Raitre.
Si sente fazioso?
No. Questa è una trasmissione di controinformazione, nel senso che si fa giornalismo, se hai ospite un rappresentante del governo, come puoi non essere fazioso? Se parli della Finanziaria devi cercare i punti deboli, stringere con le domande sugli aspetti più controversi. Ci sono altre trasmissioni per fare propaganda, per parlare senza contraddittorio, ci sono le trasmissioni di libero accesso…
Le prime puntate di “Ballarò” hanno colto di sorpresa per il ritmo sincopato, un po’ ansiogeno…. Lei era corrispondente della Rai da New York ha copiato i modi americani?
E’ vero che in America i tempi sono più serrati: quando uno ha risposto a una domanda sa che non è un merito tenere la parola per più tempo. Del resto, che senso avrebbe uno spot di tre quarti d’ora? Eppure gli spot sono il massimo della comunicazione. Ma quando abbiamo pensato a Ballarò, più che ai programmi americani, mi sono affidato alla mia esperienza: io vengo dalla radio, dove non avrebbe senso lasciare troppo a lungo il microfono agli intervistati, e ho iniziato in una agenzia stampa, dove da una intervista di quaranta minuti tiri fuori una notizia di quattro righe.
Piero Fassino si era piuttosto innervosito: sosteneva che non gli lasciava il tempo per esporre un concetto. Aveva ragione lui. Mi ha dato la sveglia. Gli avevo chiesto di rispondere in otto secondi, ne voleva almeno 16! Ma senza la frenesia degli inizi, intendo continuare a togliere la parola agli ospiti: i politici sono pronti a combattere per un microfono. Di fronte a un conduttore giovane, poi, all’inizio avevano l’aria di chi dice: “mo’ ne lo mangio”, e partivano con interventi fiume. Non potevo permetterlo. L’esordio non è stato fluido, ma adesso ospiti e pubblico sanno cosa li aspetta.
Il ministro Tremonti ha illustrato la nuova finanziaria a “Excalibur”, da voi invece era ospite il viceministro Baldassarri: chi è stato più chiaro e incisivo?
Non ho visto Excalibur. E non faccio confronti tra colleghi: a quello che pensano gli spettatori. Per me, comunque, il giornalista è parte, non può essere bi – parte. Sono fazioso se tolgo la parola a Baldassarri o se gli faccio domande su punti che possono dare fastidio? Da quando toglievo la parola a Fassino a quando l’ho tolta a Baldassarri è cambiata una cosa sola, ho imparato il tempo della tv.
… il giornalismo cane da guardia del potere….
Il cane da guardia… Nella puntata sulla giustizia, per esempio, ho fatto domande scomode a Pecorella, ma anche a Di Pietro: ce n’è per tutti. Anche per me, spesso mi trattano male.
Quando i “corsivi” di Freeman e Ribecchi?
Quella è satira, e anche la satira è informazione, è giornalismo corrosivo. Dopo il pezzo su Tremonti, Baldassarri ha esclamato “Questo è uno spot elettorale”, ma è finita lì. Ribecchi viene da “Cuore”, Freeman da “Blob” hanno il gusto della scrittura e delle immagini. Era una sfida, abbiamo rischiato, e fa le punte di ascolto più alte.
Ma dove ha imparato a fare il giornalista in America?
No, in Italia. Prima in una agenzia di stampa, poi ho collaborato con diverse testate della carta stampata, quindi ho fatto la scuola di giornalismo a Perugia.
E alla Rai è arrivato con quale lottizzazione.
Sono stato fortunato: sono entrato alla Rai alla metà degli anni Novanta con il concorso riservato alla scuola, e sono stato assunto da Gr di Ruffini. Chiaramente, però voto.
Torniamo a Ballarò. Da dove viene questo titolo?
Un’idea di Ruffini, che è siciliano. Erano anni che su Raitre non c’era più un programma di informazione, volevamo dare il senso di un posto dove si scambiano le idee, e un mercato ci sembrava la cosa più giusta: Ballarò è il mercato più famoso di Palermo, quello dove andava Ruffini da ragazzo.
Come vi è venuta in mente di far sedere i politici su poltrone dall’aspetto scomodissimo?
Un simbolo. E’ materiale riciclato, cartone. Le ha fatte l’architetto Frank Gehry, quello che ha realizzato il Guggenheim di Bilbao: lui lavora su materiale popolare, anche sugli scarti, che trasforma in opere. L’idea di far accomodare i potenti su spazzatura riciclata che permetteva di far risaltare, di mettere a fuoco, la sostanza delle cose invece, della forma. E’ lo stesso stile di interviste: stesso l’ospite con le domande, per farmi dare una risposta chiara. Il risultato è un fiume di lettere e di e-mail dal pubblico: “Resistete”, “Speriamo che non vi chiudano”.
Prima era un oscuro giornalista, ora è il conduttore di una trasmissione di successo.
La gente la riconosce per strada, si è montato la testa? Mano! E’ un lavoro! Magari per strada c’è chi mi grida: “A Ballarò, tanto te chiudemo!”; o chi mi viene a dire “Resistete, resistete”, ma finisce lì. Ci sono state anche le critiche sui giornali, certe fanno male…. Dopo la prima puntata in un articolo c’era scritto che ero vestito male, che avevo i pantaloni troppo lunghi. Ci sono rimasto malissimo, in 35 anni li ho sempre portati così…. E pensare che per l’occasione la Rai mi aveva dato un vestito di scena, ero andato a comprarlo con mia moglie in centro, un vestito fichissimo, come non ne avevo mai avuti. E hanno scritto che sembravo un impiegato, mancava solo la valigetta.
Come è andata a finire?
Ho accorciato i pantaloni di un centimetro e mezzo. E mi vesto normale.